Sono contenta di aver cantato a questo saggio della classe di musica d’insieme, saggio che di fatto si è sviluppato come un vero e proprio concerto, visto il nostro impegno e la riuscita musicale nell’insieme.

Il saggio si è svolto nella Chiesa di San Fermo Maggiore, un luogo splendido e con acustica molto buona, la sera dello scorso sabato 19 marzo.

A questo saggio/concerto hanno partecipato:

  • alcuni componenti del corso di musica d’insieme (indirizzo musica antica) del Conservatorio di Verona, in particolare: voci, 2 violinisti, continuisti (organo, cembalo, due tiorbe, viola da gamba, violoncello, arpa, contrabbasso);
  • l’Insieme Corale “Ecclesia Nova”, diretto dal Maestro Matteo Valbusa che, in questa occasione, ha cantato con noi.

Francesco Foggia, Giacomo Carissimi

Eravamo quindi in tutto una quarantina di persone, dirette dal gesto del Maestro Alessandro Quarta, docente di Musica d’insieme, che ha anche curato la concertazione dei brani.

Il programma era costituito da due splendidi oratorii del Seicento romano.

Il primo, “Victoria Passionis Christi” di Francesco Foggia  (1604-1688), a 11 voci, 2 violini e basso continuo, tratta della passione di Cristo descrivendola musicalmente, come in un affresco del tempo.

Le voci erano suddivise in tre cori, che a volte intervenivano contemporaneamente, a volte in duetti o trii, dialogando tra di loro.

Il secondo oratorio, più famoso anche per chi non è avvezzo alla musica antica, è lo “Jephte” di Giacomo Carissimi (1605-1674) basato sulla triste storia di Jefte dal Libro dei Giudici dell’Antico Testamento.

Nell’oratorio di Foggia ho cantato dei preziosi duetti e trii nel coro secondo;
in Jephte ho cantato la parte della Filia.

Jephte, la Filia

Per un soprano la Filia è un ruolo “di repertorio”, quindi da conoscere e mettere a bagaglio.

È un ruolo piuttosto impegnativo, soprattutto nella parte finale in cui il personaggio ha un lungo lamento che è stato considerato, dal teorico contemporaneo Athanasius Kircher nel suo trattato Musurgia universalis (1650), l’esempio più compiuto di espressione musicale dell’affetto doloroso.

Che cosa è l’affetto doloroso?

La musica del Seicento è, diciamo così: caratterizzata da “cifre” un po’ diverse da quel che passa regolarmente su Tik Tok…

Scherzi a parte: è proprio di tutta la musica del Seicento (e non solo!) l’uso di vere e proprie figure retoriche musicali, utilizzate come si utilizzano quelle letterarie e atte a muovere gli affetti del pubblico.

Entrambi gli oratori di questo saggio ne erano saturi. È davvero interessante come l’approfondimento teorico della materia conferisca all’arte che produci ed esperisci (il canto, in questo caso: ma azzarderei che lo stesso vale anche per la fruizione di altre forme d’arte, dalla letteratura alla pittura) una superiore, per così dire, densità.

All’inizio non è possibile apprezzare l’opportunità che le figure retoriche, in musica, danno all’interprete. Sono invece, e questo proprio come nel linguaggio, una opportunità per arricchire l’interpretazione, un veicolo di un ulteriore livello di espressione che è già lì, pronto a essere usato, ma che devi conoscere per poterlo padroneggiare e quindi farlo divenire parte dell’esperienza di chi ti sta ascoltando.

Come è andata?

Sono molto contenta di come ho cantato e anche della mia crescita musicale avvenuta fino a ora, crescita che ho raggiunto sicuramente attraverso un lavoro personale, ma anche grazie ai docenti che ho incontrato, che hanno saputo vedere oltre il mio strumento e cogliere anche la persona e le emozioni che si “nascondono” dietro.

Cosa che reputo indispensabile per formare un ottimo musicista.

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